Anna Lembke
Dipartimento di Psichiatria – Università di Stanford – USA.
The New England Journal of Medicine, 367;17, pagine 1580-1; 25 ottobre 2012
L’abuso di farmaci oppiodi sotto prescrizione medica è un’epidemia negli Stati Uniti. Basti pensare che nel 2010 il numero di soggetti abusanti si aggirava attorno ai 2.4 milioni1, con un aumento del 225% tra il 1992 e il 2000. Nel 60% dei casi questi farmaci sono ottenuti con ricette mediche, in modo più o meno diretto. Spesso, pur sapendo che i pazienti ne abusano o li dirottano ad altri che li usano al di fuori di una prescrizione medica, i medici li prescrivono ugualmente.
Perché?
Questo problema è stato sicuramente alimentato da recenti cambiamenti riguardanti la filosofia del trattamento antalgico, le tendenze culturali sull’atteggiamento degli Americani circa la sofferenza e la disincentivazione del trattamento delle dipendenze.
Durante il XIX secolo i medici si sono apertamente dichiarati contro l’utilizzo di rimedi contro il dolore2, spiegando che il dolore è una cosa positiva, un segno di vitalità fisica ed un fattore importante di guarigione. Negli ultimi cento anni, specialmente grazie alla maggior disponibilità di morfino-derivati come l’ossicodone (Oxycontin), si è assistito ad un profondo cambiamento.
Oggi il trattamento antalgico fa parte della responsabilità professionale di ogni singolo medico. Nel 2001 il Medical Board della California ha approvato una legge che ha richiesto a tutti i medici (ad eccezione di patologi e radiologi) di partecipare ad un corso di una giornata sulla “gestione del dolore”. È stata una coazione senza precedenti. All’inizio del presente anno, Pizzo e Clarke hanno fortemente esortato le strutture sanitarie, così come “familiari, colleghi e amici”, a “fare affidamento sulla capacità dell’individuo di esprimere la propria soggettiva esperienza del dolore e di imparare a fidarsi di tale impressione”, aggiungendo “il sistema medico deve dare credibilità a tali manifestazioni e sforzarsi di rispondere ad esse con efficacia e onestà”3.Sembra quindi che l’esperienza soggettiva del dolore sia oggi più rilevante di altre, altrettanto importanti, considerazioni. Nella cultura medica contemporanea l’auto-certificazione del dolore è sopra ogni discussione e il trattamento antalgico è supportato alla stregua del santo Graal dell’ assistenza medica compassionevole.La predominanza dell’esperienza soggettiva del dolore è stata rinforzata anche dalla moderna consuetudine a valutare costantemente la soddisfazione degli utenti. Ai pazienti è richiesto di compilare questionari riguardanti le cure ricevute che includono anche domande sul trattamento del dolore. Le performance cliniche dei medici possono inoltre essere valutate su siti Internet facilmente consultabili da chiunque.I medici che si rifiutano di prescrivere oppiacei per il dubbio che alcuni pazienti ne abusino, ricevono facilmente bassi punteggi da parte degli stessi. In alcune istituzioni, questi punteggi possono influire sullo stipendio e sulla garanzia dell’impiego. Quando ho chiesto ad un collega medico che abitualmente tratta il dolore come si comporta con pazienti che sono dipendenti dagli oppioidi, ha risposto “Qualche volta devo fare la cosa giusta e rifiutare di prescriverli anche se so che andranno su Yelp (sito Internet for-profitin cui gli utenti possono valutare la competenza dei professionisti, NdT) e mi daranno un cattivo giudizio”. Il suo “qualche volta” implica che altre volte egli prescrive consapevolmente farmaci oppiodi a pazienti dipendenti, per il semplice motivo che non farlo andrebbe a compromettere la sua posizione. In tal caso, non è di certo il solo.
Un cambiamento culturale che ha contribuito al dilemma medico sul dolore, affonda le radici nella moderna convinzione che “tutta la sofferenza possa essere evitata” . Oggi molti americani pensano che qualsiasi tipo di dolore, fisico o mentale, sia un segno di malattia e quindi potenzialmente curabile. La recente consuetudine di etichettare il “dolore, la pena” come disturbo mentale è solo un piccolo esempio indicativo di questo fenomeno. Almeno una parte della società crede che il dolore non curato possa lasciare una cicatrice psichica, in grado di scatenare una psicopatologia nella forma di stress post-traumatico; così, i medici che rifiutano di prescrivere oppioidi possono essere visti non solo come coloro che ostacolano il sollievo, ma anche color i quali infliggono ulteriore danno laddove provocano un trauma psicologico.
Il trauma è interpretato non solo come causa di malattia, ma anche come danno di cui essere risarciti 4.
Questo è ben chiaro soprattutto per i pazienti dipendenti che utilizzano svariati aneddoti su malattia e vittimizzazione per ottenere i farmaci dei quali hanno bisogno. Il concetto è stato riassunto molto bene da un utente: “So che sono dipendente (dagli oppioidi) ed è colpa dei medici perché me li hanno prescritti. Ma li denuncerei se mi lasciassero soffrire”.
Inoltre, per i medici il trattamento del dolore paga, quello delle dipendenze no. Nel secondo caso, infatti, sarebbe necessario concentrarsi maggiormente su informazione e consulenza, entrambi approcci che richiedono tempo. Da una prospettiva prettamente economica, il tempo speso con ogni paziente è inversamente proporzionale al guadagno; soprattutto nei reparti di emergenza dove i medici sono valutati in base al numero di pazienti visti, piuttosto che al tempo trascorso con ognuno di loro. Anche se saprebbero come farlo, i medici non spenderanno tempo prezioso per informare i pazienti sulle dipendenze finché non saranno adeguatamente retribuiti. Attualmente, è più rapido e remunerativo diagnosticare il dolore e prescrivere un rimedio oppiaceo che diagnosticare e trattare una dipendenza.
Il recente cambiamento culturale nella Medicina e nella società riguardo al dolore rappresenta una risposta alla prolungata scotomizzazione dell’esperienza soggettiva del dolore da parte dei pazienti così come l’effetto dell’aumento della prevalenza di sindromi dolorose croniche in una popolazione che invecchia sempre di più. E sebbene tale cambiamento abbia beneficiato molte persone con dolore intrattabile che prima sarebbero state curate incongruamente esso ha avuto conseguenze devastanti per i pazienti con dipendenza e per quelli che dipendenti lo sono diventati grazie a prescrizioni disinvolte di farmaci oppioidi.
Alcuni interventi correttivi a breve termine che potrebbero risultare utili includono l’obbligo per tutti i medici di seguire un’educazione continua sulle Dipendenze, similmente a quel che è successo da 2001 ad oggi per ciò che attiene alla loro formazione sul trattamento del dolore. I medici hanno bisogno di concettualizzare la dipendenza come una malattia cronica ad andamento fluttuante, una malattia simile a diabete, cardiopatie, e altre malattie croniche influenzate dal comportamento dei pazienti.
I medici possono padroneggiare strategie per interventi brevi che si sono dimostrati utili per ridurre il misuso di sostanze senza richiedere troppo tempo e che sono efficaci anche nel contesto delle emergenze mediche.
A mio parere tutti i medici in tutti i contesti dovrebbero avere accesso ad un data – base per il monitoraggio delle droghe soggette a prescrizione e dovrebbero essere obbligati per legge ad interrogare il data – base prima di scrivere qualsiasi ricetta di oppioidi o di altre sostanze controllate. Leggi del genere sono state già approvate in alcuni Stati, inclusi New York e Tennessee. I medici dovrebbero inoltre essere avvertiti dell’esistenza di nuovi codici amministrativi che consentono loro di avere rimborsi specifici per il counselling sulle Dipendenze.
Ma il problema dei medici che prescrivono antidolorifici dipendentigeni a pazienti che sanno essere o sospettano essere dipendenti sarà risolto soltanto quando la minaccia di censura pubblica e legaleper non avere trattato la dipendenza sarà uguale a quella per non avere trattato il dolore; e quando trattare la dipendenza sarà economicamente compensato al pari della cura di altre malattie.
Il primo obiettivo sarà raggiunto solo quando la Dipendenza sarà considerata una malattia dalla medicina e dalla società, perché solo allora essa sarà trattata come legittimo oggetto dell’attenzione clinica.
Il secondo sarà raggiunto solo quando il tempo speso con i pazienti sarà valutato al pari di prescrizioni e procedure.
Nel frattempo frotte di pazienti approderanno a dipartimenti di emergenza e studi medici in tutto il Paese e tutti i giorni, riferendo dolore e ricevendo oppioidi ad onta della loro condizione di dipendenza, nota o sospetta.
Gli operatori della salute sono diventati di fatto ostaggi di tali pazienti sebbene le vittime finali siano i pazienti medesimi, laddove non ricevono quel trattamento della dipendenza di cui avrebbero bisogno e che meriterebbero.
1 Results from the 2010 National Survey on Drug Use and Health: summary of national findings. Rockville, MD: Substance Abuse and Mental Health Services Administration, 2011 (publication no. SMA 11-4658).
2 Meldrum ML. A capsule history of pain management. JAMA 2003;290:2470-5.
3 Pizzo PA, Clark NM. Alleviating suffering 101 — pain relief in the United States. N Engl J Med 2012;366:197-9.
4 Fassin D, Rechtman R. The empire of trauma: an inquiry into the condition of victimhood. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2009.
IL COMMENTO :
LE PR.IN.PSI , QUESTE SCONOSCIUTE
Abbiamo rinunciato ad una chiosa puntuale dell’articoletto della Psichiatra Anna Lembke, qui sopra tradotto ad uso dei colleghi “non capenti” l’inglese. Rileggendolo attentamente ci siamo infatti accorti che le argomentazioni e le spiegazioni proposte dall’Autrice sono talmente distanti dalla nostra realtà operativa e dal contesto culturale in cui terapia antidolore e trattamento delle tossicodipendenze sono amministrate che un commento strettamente analitico ci avrebbe portati troppo lontano.
D’altronde una riflessione sulle dipendenze iatrogene da “pain killers” è importantissima e destinato, a nostro giudizio, ad interessare in tempi brevi anche la nostra sanità, pubblica nonché (come si intuirà proseguendo la lettura) privata, in larga scala ed in modo più evidente di quel che è successo finora. E qualcosa bisognava – e bisogna – dire.
Qui esprimiamo solo poche considerazioni che auspichiamo servano a stimolare una riflessione di carattere deontologico ed etico sulle Pr.in.psi., che non sono patatine, ma, nel nostro personale sistema di siglature, Prescrizioni incongrue di (farmaci) psicoattivi.
Si tratta di considerazioni provenienti dall’ esperienza libero-professionale rispettivamente di Medico delle Dipendenze che cura privatamente pazienti che abusano per un motivo o per l’altro di sostanze psicoattive (dal tabacco alla cocaina) e di Psicologa – Tirocinante di un Master post – laurea dell’Ateneo patavino, la quale a detto medico, che è anche Tutor di quel Master, si è riferita nel corso dell’anno 2012.
Si dovrebbe prima di tutto affrontare il tema di quella – per fortuna minoritaria – prescrizione e ricettazione medica di psicofarmaci o farmaci sostitutivi (degli oppioidi, ma anche un alcolmimetico come il sodio-oxibato a ben vedere rientra nel discorso) che per motivi illeciti finisce per alimentare il “mercato grigio” ossia, meno eufemisticamente, lo spaccio, e quindi consente l’accesso a tali farmaci a persone che li assumono incongruamente in quanto al di fuori di una prescrizione medica personalizzata.
E poi, abbandonando la trita immagine del tossicodipendente che vende “in piazza” il metadone affidatogli dai Servizi sanitari, bisognerebbe pensare al meno visibile fenomeno del dirottamento di psicofarmaci in seno alla stessa famiglia “da parte di” e “verso” soggetti conformi, i quali non hanno alcuna intenzione né interesse ad alimentare mercati clandestini né intendono trasgredire leggi, ma, in buona fede, cercano di risolvere problemi di salute dei loro cari in autonomia, ossia senza interpellare i professionisti della salute.
Ci riferiamo alla madre che dà le “goccine” di benzodiazepina al figlio o al marito, per dormire o “per l’ansia”, sulla base del primitivo e ahinoi spesso fallace assioma ”han fatto bene a me, vedrai che faran bene anche a te !”.
La pericolosità di tutte queste forme di automedicazione sta non tanto nella loro illiceità ( comunque la mamma amorevole che dà le “goccine” di cui sopra non sarà mai condannata per spaccio e nemmeno per esercizio abusivo della professione medica) quanto nella possibile e a volte probabile induzione di dipendenza in soggetti magari inconsapevolmente vulnerabili agli effetti psicotropi di sostanze dannatamente potenti; oppure nella provocazione di effetti tossici acuti imprevedibili, come le overdosi (si pensi alla morte improvvisa accidentale per arresto respiratorio in soggetti non tolleranti che ingeriscono metadone); e comunque la pratica dell’automedicazione intrafamiliare (o interamicale) costituisce in sé un brutto messaggio sul piano educativo a prescindere dai danni organici che il suo destinatario può riceverne!
L’articolo in discussione richiama però prepotentemente l’attenzione dei sanitari sulle dipendenze iatrogene da farmaci antidolorifici, come si diceva in apertura.
E qui l’esperienza della Medicina delle Dipendenze riteniamo soprattutto privata (nei precedenti 16 intensi anni di lavoro in trincea nei SER.T. della nostra Regione chi scrive non ha mai visto tanti casi del genere come in 5 anni da medico free – lance…) svela un “sommerso” costituito da cittadini/e-utenti-pazienti i quali – e le quali – vanno incontro malauguratamente a farmacodipendenze talora tenaci: ancora oggi persone appartenenti a diverse categorie, dalle casalinghe operose ai/alle professionisti/e di ogni età, non riescono a smettere l’uso di medicinali a base di barbiturici o più spesso di codeina (abbinata a comuni FANS) e svuotano quotidianamente blister contenenti diecine di compresse di tali preparazioni; e lo fanno prima commuovendo il curante, poi ricorrendo a ricette false, falsificando firme, migrando da un medico all’altro, a volta ottenendo il farmaco senza ricetta.
La dipendenza iatrogena da barbiturici, codeina, tramadolo, fentanile, o altri oppioidi di recente immessi nel mercato esiste eccome, anche nel nostro Paese, soltanto la dimensione del fenomeno non è ancora colossale.
Ma per quanto tempo ancora?
Noi crediamo che i motivi per cui, sia in ambito di cure primarie sia in ambito specialistico pubblico, potenti farmaci dipendentigeni sono prescritti con troppa disinvoltura al di fuori di linee guida o anche solo di indirizzi condivisi tra gli addetti ai lavori (abbiamo visto prescrivere in un Ospedale reggiano ossicodone per curare una dipendenza iatrogena da un cerotto di fentanile nella quale un povero signore settantenne, reduce da un tumore operato e poi guarito che gli aveva procurato dolori intensi con conseguente necessità di istituire appunto una cura con tali cerotti, si era trovato disastrosamente avviluppato…!) siano da ricercare prima di tutto nella non-informazione dei prescrittori, da cui l’“inconsapevolezza di fondo” di quanto farmaci di quel tipo possano dare dipendenze, dolore e finanche morte. Alla non-informazione si affianca in modo più strisciante la dis-informazione, intesa non come condizione, ma come intervento pseudoformativo agìto da altri a “favore” del medico prescrittore: in un caso di nostra personale osservazione è stata senza pudore “consigliata” ai medici in sala la prescrizione di un preparato farmaceutico dotato di potente azione oppioide ( e quindi dipendentigeno) quale primo step nella terapia del dolore di soggetti colpiti da colpi di frusta non fratturativi. Sic.
Il fatto poi che le prescrizioni in parola siano in gran parte su ricetta cosiddetta “bianca” e quindi sottratte a controlli di gestione da parte dell’Azienda sanitaria pubblica, i quali sono spesso in sostanza anche controlli di congruità legale, è un secondo fattore che rende ragione di tale disinvoltura. In un altro caso di nostra osservazione un paziente aveva ricevuto dal proprio medico di medicina generale per mesi e mesi, talché era diventato dipendente da codeina, ricette incalzanti di un preparato contenente paracetamolo associato a codeina, la quale è sì un oppioide “debole”, ma è capace di generare dipendenza talora tenace nell’uso prolungato. ”Incalzanti” significa che il numero di confezioni prescritte rapportato all’unità di tempo superava abbondantemente il fabbisogno di quel paziente, fabbisogno facilmente calcolabile semplicemente leggendo la posologia nella ricetta e usando l’aritmetica.
I tre fattori causali testé proposti (ignoranza, disinformazione aggressiva e mancanza /insufficienza di controlli istituzionali “a valle”) sono certamente più prosaici rispetto alla raffinata chiave di lettura fornita dall’articoletto americano: nella nostra sintetica – e forse primitiva chiosa – noi infatti non discettiamo di humus culturale per le “Pr.in.psi”, né del condizionamento esercitato dallo slivellamento tra la nostra percezione dell’importanza della cura delle dipendenze intese come malattia ed il timore di essere accusati e sanzionati per aver provocato un danno alla salute ad un paziente nel momento in cui non azzeriamo un suo dolore “gratuito” mediante una prescrizione antalgica “forte” (si legga bene l’articolo, piuttosto suggestivo nel merito).
Il nostro è un discorso più “terra terra”, forse perché siamo in Italia e/o forse perché il nostro osservatorio (la trincea di un piccolo ambulatorio privato per la cura delle dipendenze) ci fornisce in continuazione dati diversi.
Al gentile lettore l’ardua sentenza.
Dott. Fulvio Fantozzi
Medico delle Dipendenze libero – professionista
Già Dirigente Medico di Farmacologia e Tossicologia Clinica – Az. U.S.L. di Modena
Tutor nel Master II livello in Psicopatologia e Neuropsicologia Forense – Università degli Studi di Padova
Dott.ssa Daniela Beltrami
Psicologa Tirocinante – Master II livello in Psicopatologia e Neuropsicologia Forense –
Università degli Studi di Padova
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